Perché quando un nostro amico o parente ha mal di pancia stiamo in pena per lui e gli consigliamo di andare da un medico, e quando soffre interiormente non gli consigliamo di andare da uno psichiatra?
Da “il folle gesto” a “dramma della gelosia”, nella descrizione dei casi di cronaca le parole sono importanti, ma spesso quelle usate sono sbagliate. Ne abbiamo parlato con Claudio Mencacci, presidente Società italiana di psichiatria
di Sara Ficocelli
Difficile, per l’uomo della strada, pensare che il ragazzo che pochi giorni fa ha dato fuoco alla fidanzata all’ottavo mese di gravidanza sia una persona sana di mente, senza alcuna patologia mentale. Una persona come tutte le altre. Solo, precisa lo psichiatra, molto probabilmente “cattiva”. Il quadro psichiatrico dell’artefice di questa tragedia, così come quello dei responsabili di molti altri casi di cronaca che hanno letteralmente macchiato di sangue le pagine dei giornali negli mesi, verrà delineato da un team di esperti, e non è certo questa la sede o il momento per dar dei giudizi, ma una cosa è certa: «Abbiamo tante emozioni – spiega l’esperto – quelle primarie (paura, sorpresa, tristezza , disgusto, rabbia, attesa e gioia) e quelle secondarie (allarme, delusione, rimorso, disprezzo, aggressività). Ma spesso nei giornali troviamo situazioni complicate spiegate in modo generico e banale, senza usare le parole giuste (esempio “folle”, “un po’”) e per illustrare certe situazioni – con protagonisti perfettamente sani, non folli – vengono usate frasi fuorvianti e spettacolari o viene data una spiegazione (“raptus di follia”) che invece che innalzare la risposta la abbassa, perché le dà una giustificazione; persino il Papa ha parlato di “schizofrenia esistenziale”: che significa?».
Quanti errori, quanti pregiudizi, quanta paura e quanta superficialità, dietro alle parole della psichiatria. «Quando una madre ammazza i figli, parenti e amici dicono che quella era una famiglia modello. Poi scopri che non era affatto così, che tra quelle mura si litigava ogni giorno, che la donna soffriva di depressione, e così via. C’è un’enorme ritrosia a parlare di salute mentale, un rapporto di attrazione e repulsione ci lega a questi disturbi. Ecco perché è fondamentale acquisire un glossario, un dizionario da usare in questi casi, proprio come già hanno fatto in Canada e negli Usa, affinché le condizioni di stigma e vergogna vengano messe da parte», continua Mencacci.
I problemi principali, rispetto al tema della divulgazione scientifica, sono insomma due: da una parte l’estrema facilità con la quale spesso i cronisti si lasciano andare a espressioni seducenti ma scorrette – “dramma della gelosia” e “folle gesto” sono solo alcuni degli esempi che incontriamo spesso – e dall’altra, quando si tratta di approfondire, di andare a delineare il quadro psichico del responsabile della tragedia, si cercano referti medici nelle improbabili testimonianze del vicinato («le interviste ai vicini andrebbero abolite», chiosa lo psichiatra), spesso restio a parlare di disturbo mentale, laddove c’è.
È per questa ragione, precisa l’esperto, che molte persone, pur rendendosi conto che il dirimpettaio o la signora della porta accanto o il parente soffre di depressione o bipolarismo, non denuncia la cosa e fa finta di niente. «Perché quando un nostro amico o parente ha mal di pancia stiamo in pena per lui e gli consigliamo di andare da un medico, e quando soffre interiormente non gli consigliamo di andare da uno psichiatra?», domanda Mencacci.
«Altro esempio: spesso mi imbatto in titoli come “Psicofarmaci e droga contro lo stress da lavoro”, constatando la perenne associazione tra psicofarmaci e dipendenza, alterazione. Queste medicine sono sempre associate a qualcosa che fa male, ed è sbagliatissimo. Sono state acquisite le parole per parlare di tumore e cancro, perché non quelle per parlare di salute mentale?».
L’effetto boomerang di questa corsa alla disinformazione, spiega Mencacci, è molto serio. Perché, pur essendo comprensibile l’esigenza dei giornali di attrarre il lettore, la posta in gioco è alta, e riguarda la salute del lettore stesso. «In questo modo – spiega Mencacci – le persone davvero malate vengono allontanate dalle cure. E quelle che invece sono perfettamente sane, si vedono di colpo giustificate per ciò che hanno fatto».
Se invece usassimo sempre le parole giuste al momento giusto, potremmo dare a Cesare quel che è di Cesare, e al malato quel che è del malato. Perché – non dimentichiamolo – il 90% delle persone con un disturbo mentale è perfettamente capace di intendere e di volere. E chi soffre d’ansia o di altri problemi non necessariamente si trasforma in assassino. Ci sono tante parole che possono essere usate, al posto di “folle” o “depresso”, in attesa di una corretta diagnosi medica: narcisistico, antisociale, violento, aggressivo, propone Mencacci.
Da Il Tirreno