L’ultimo report dell’Istituto superiore di sanità rivela che la maggior parte dei focolai si verifica in ambito domiciliare, circa il 77% del totale. Abbiamo la sensazione che l’untore sia sempre l’altro, che non siamo noi, che non sia il nostro parente o il nostro amico stretto o quel collega di lavoro che ci sta tanto simpatico. Crediamo che l’untore sia fuori dalla nostra ‘bolla’. Ma ci sbagliamo. C’è l’idea che una volta chiusa la porta di casa, si possa chiudere fuori anche il Covid. Non è così. Paradossalmente, tendiamo ad esporci al rischio proprio con le persone a cui vogliamo bene, perché pensiamo che non possano farci del male. E che noi non potremmo mai farlo a loro.
Esponiamo al pericolo le persone che conosciamo. Sembra strano, ma è così. Questo perché il nostro cervello sociale tende a selezionare le persone per amicizia, professionalità, condivisione di idee e di valori, di una fede che sia sportiva o religiosa. Una volta fatta questa ‘cernita’, il gruppo selezionato entra a far parte di un segmento di persone che riteniamo – erroneamente – ‘non pericolose’. Con loro viene meno quell’attenzione prudenziale che avremmo con altri. Si annulla la distanza e tutte le norme precauzionali possono venire meno. Semplicemente l’affetto che proviamo nei loro confronti, l’affinità ci inganna: pensiamo di far parte della stessa ‘tribù’, pensiamo di non essere pericolosi per loro e che loro non lo siano per noi.
Come fare, dunque, a tenere lontane le persone che ci sono più vicine? Dobbiamo imparare a gestire meglio la propria affettività, “sapendo che quel distanziamento è un atto d’amore e di rispetto per l’altro, e che non è un gesto di freddezza o di distanza emotiva, come ci verrebbe spontaneo pensare. E facendo un salto mentale. Tutti, nessuno escluso.
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