Così, se il dato europeo dice che un lavoratore su cinque accusa disturbi stress-correlati, il dato in Lombardia (l’Istat al primo semestre del 2017 contava 4,4 milioni di occupati, e il tasso di disoccupazione, 7,4% generale e 29,9% nella fascia 15-24 anni, è molto inferiore a quello nazionale, rispettivamente dell’11,7 e del 37,8%) va corretto al rialzo. Soprattutto a Milano: «La condizione metropolitana espone a ritmi più frenetici», chiarisce Mencacci, e le donne «hanno ancora più difficoltà a coniugare» casa e lavoro. Sono dunque loro le “attenzionate” speciali in base ai dati diffusi per presentare la giornata mondiale della salute mentale, il 10 ottobre, che quest’anno si concentra sul mondo del lavoro. In Italia, su 28 milioni di lavoratori, circa sei milioni hanno disturbi da stress, e 3,2 milioni sono donne. Un milione ha una situazione clinicamente rilevante, da curare: 500 mila soffrono di disturbi d’ansia, 230 mila d’insonnia, 220 mila di depressione. Ma altri 2,2 milioni di lavoratrici hanno disturbi transitori di ansia, del sonno, deficit di concentrazione, in generale riconducibili «a un adattamento non efficace allo stress». Le più vulnerabili agli stati d’ansia, dicono gli esperti del Fatebenefratelli-Sacco, «sono le giovani e quelle che lavorano a contatto col pubblico».
Lo stress ha un costo economico stimato in Europa in un 1% del Pil, che sale al 3-4% calcolando l’impatto di tutti disturbi di salute mentale sul lavoro (in Germania, negli ultimi 20 anni, sono triplicate le pensioni d’invalidità per questo motivo). Perché le conseguenze non si limitano alle giornate di lavoro perse, di cui il 25% è legato alla depressione. C’è anche il «presentismo», ossia l’andare a lavorare pur non stando bene: il 94% di chi ha una depressione ha problemi di tipo cognitivo, tra il 25 e il 50% un calo della produttività. E solo una persona su 4, tra quelle che soffrono un disagio psichico, riceve qualche trattamento, solo una su dieci una terapia adeguata. «Bisogna abbattere il pregiudizio, lo stigma – insiste Mencacci -. Poco conta che questo disagio radicato, che tende a sfociare nel clinico, si definisca frustrazione o demotivazione, ansia, depressione, esaurimento. Chiediamo alle aziende sportelli di ascolto, ma anche una cultura della condivisione perché il disagio non venga nascosto, per vergogna o paura di conseguenze. E l’ambiente lavorativo va riformulato in una nuova ottica, capace di realizzare il tesoro della diversità tra uomini e donne».
Da Il Giorno