Sospettosi, chiusi, irascibili. 300.000 ragazzi vivono la malattia mentale più complessa e sconosciuta. Ma una diagnosi precoce riesce a salvarli. Grazie alla riabilitazione.
di ELISA MANACORDA
UN LAVORO di quattro anni su uno dei disturbi psicotici tra i più complessi e i meno compresi: la schizofrenia. È quello del CommonMind Consortium, un gruppo di ricerca composto da studiosi appartenenti a nove istituzioni di quattro paesi diversi, tra cui il Centro per la Biologia integrata (Cibio) di Trento. Obiettivo: decifrare i meccanismi molecolari della malattia e aprire nuove prospettive di cura. Ora, scrivono i ricercatori su Nature, abbiamo compiuto la prima tappa verso l’identificazione di alcuni geni che sembrano in grado di indurre, in sistemi modello, dei deficit simili a quelli trovati nei tessuti di pazienti schizofrenici.
La schizofrenia è una grave e cronica malattia del cervello caratterizzata da un tipico “scollamento dalla realtà”: il paziente ha difficoltà a distinguere tra esperienze reali e non reali, a pensare in modo logico, ad avere reazioni emotive adeguate al contesto sociale. Le sue cause non sono ancora del tutto chiare, e certamente concorrono diversi fattori, compresi quelli ambientali. Ma, come si vede, le ultime ricerche si stanno orientando verso la genetica. Un altro studio condotto da Mark Weiser, del dipartimento di Psichiatria dello Sheba Medical Center di Tel Aviv, mostra per esempio come chi ha un fratello o una sorella con schizofrenia presenti un rischio di dieci volte superiore alla media di sviluppare la stessa patologia. E sebbene non si possa parlare del “gene della schizofrenia”, all’inizio di quest’anno i ricercatori della Harvard Medical School avevano trovato una correlazione tra la presenza di una particolare variante del gene C4, connesso al sistema immunitario, e l’aumento del rischio di avere la malattia.
Nonostante gli sforzi della ricerca, però, la schizofrenia resta una delle malattie più debilitanti. E costosa in termini di salute pubblica: in Italia i circa 300 mila malati pesano ogni anno per 3,2 miliardi di euro. Si tratta soprattutto (il 60%) di costi indiretti, relativi alla perdita di produttività dei pazienti e dei familiari. Tra i costi diretti, il trattamento farmacologico pesa per una minima parte (il 10 %), il resto si riferisce ai costi di ospedalizzazione e assistenza domiciliare. A gravare su pazienti e caregiver è anche la difficoltà di una diagnosi precoce. L’esordio della schizofrenia si colloca proprio in quell’età (12-18 anni per i maschi, e poco più per le femmine) nella quale i sintomi della malattia possono essere confusi con i segni di un’adolescenza difficile. Ragazzi irascibili, chiusi e introversi, sospettosi di tutto e di tutti, emotivamente fragili, con comportamenti socialmente inappropriati. Risultato: uno studio recente condotto in Lombardia – spiega Claudio Mencacci, presidente della Società Italiana di Psichiatria – mostra come i pazienti schizofrenici vengano avviati alla cura verso i 27 anni in media, con grande ritardo sulla prima comparsa dei sintomi.
Quello che serve, aggiunge Mencacci, è quindi togliere alla malattia e a chi ne soffre quell’alone di paura e diffidenza che impedisce di arrivare in tempi brevi alla diagnosi corretta: lo stigma è il più grande ostacolo per coinvolgere efficacemente i malati e le famiglie. In Italia, dicono le stime, una persona su tre con disturbo schizofrenico non arriva al contatto con i Servizi, e quindi non riceve alcun trattamento. Servirebbe invece, aggiunge lo psichiatra, mettere in cantiere équipes di specialisti formati sul tema dell’esordio, e farle operare nei punti chiave della vita giovanile: scuole, luoghi di aggregazione sociale, per far conoscere meglio la malattia e segnalare i casi a rischio, così da avviare i pazienti alla terapia il prima possibile. Perché la schizofrenia è una malattia curabile.
«Il trattamento è tanto più efficace quanto più precoce è la presa in carico – continua Mencacci – eppure più del 50% delle persone non riceve cure adeguate».
Oltre ai farmaci antipsicotici, asse portante della terapia, il trattamento ha come obiettivo di eliminare o ridurre i sintomi, migliorando la qualità di vita e la funzionalità sociale del paziente, per mantenere il recupero dagli effetti della malattia il più a lungo possibile. Anche con questi obiettivi le tre principali società scientifiche del settore (con la società di psichiatria anche la Società Italiana di Psichiatria Biologica e quella di NeuropsicoFarmacologia), con il supporto di Janssen, presentano oggi il progetto TRIATHLON, programma destinato alla formazione, in 18 mesi, di più di 3000 specialisti e operatori sanitari di 36 dipartimenti di salute mentale. L’obiettivo, conclude Mencacci, è quello di promuovere il recupero e il reinserimento dei pazienti attraverso un approccio integrato che preveda, oltre alla riabilitazione cognitiva, anche un programma di attività fisica, che come molti studi hanno dimostrato (vedi a lato) può avere un effetto benefico e positivo sui sintomi.
Da La Repubblica