Il 30 marzo, compleanno di Vincent Van Gogh, è la giornata dedicata alla sindrome, di cui il pittore soffriva, in cui si alternano euforia e depressione. Oggi esistono terapie che aiutano a controllarla, ma chi è più esposto può ridurne il rischio cambiando le abitudini.
Tutti sperimentano sbalzi dell’umore, più allegro in certi giorni, più cupo in altri, ma per alcune persone queste variazioni sono talmente ampie da diventare un vero disturbo psichico, il cosiddetto Disturbo bipolare, al quale è dedicata la giornata mondiale del 30 marzo, compleanno di Vincent Van Gogh, il geniale pittore olandese che ne soffriva. È caratterizzato da periodi di eccitazione (fase maniacale) e periodi di depressione (fase depressiva). Ne esistono due tipi: il tipo 1, nel quale si alternano fasi maniacali (o ipomaniacali, ossia di eccitazione moderata) e fasi depressive; il tipo 2, nel quale si alternano fasi ipomaniacali e depressive senza che si presentino fasi maniacali vere e proprie. Recenti studi realizzati con Risonanza Magnetica funzionale hanno mostrato alterazioni nella struttura e nelle funzioni cerebrali di chi ne soffre. In particolare è emersa una riduzione delle normali connessioni tra l’area prefrontale della corteccia cerebrale e strutture profonde del sistema limbico, come l’amigdala.
L’area prefrontale tiene sotto controllo le emozioni e gli impulsi elaborati dal sistema limbico, così che, quando tale controllo non funziona, si genererebbero i tipici sbalzi di umore. Questa riduzione delle connessioni è forse conseguenza di un errore nello sviluppo del cervello, in particolare della cosiddetta migrazione neuronale, che porta i neuroni a collocarsi proprio là dove devono essere. Ma non è tutto qui. «Anni di ricerche hanno permesso di comprendere il complesso rapporto tra fattori biologici, personologici e ambientali che contribuiscono all’insorgenza e alla progressione del disturbo – spiega Claudio Mencacci, direttore del Dipartimento di neuroscienze degli ospedali Fatebenefratelli-Sacco di Milano -. Per quanto attiene a quelli biologici, è stato osservato come questo disturbo abbia un andamento familiare, ripresentandosi nel corso delle generazioni nella stessa famiglia, anche se non si eredita la malattia, bensì una predisposizione ad ammalare che però necessita di “fattori di attivazione” ambientali o psicologici. Quindi avere un genitore con questo disturbo non significa per forza svilupparlo. L’esposizione a sostanze d’abuso, cattive abitudini di vita, soprattutto relativamente al sonno, contribuiscono in misura determinante allo sviluppo e alla progressione della malattia».
Chi soffre di un disturbo bipolare non ha vita facile, dato che gli episodi di mania o depressione tendono a ripetersi. Secondo quanto riportato in un recente studio pubblicato sul Journal of Affective Disorders da Michael Gitlin e David Miklowitz del Department of Psychiatry della Geffen School of Medicine at Ucla di Los Angeles, nonostante l’utilizzo di farmaci stabilizzatori dell’umore, dopo 4 anni da un episodio il rischio di averne un altro è di circa il 50%, e a 5 anni fino al 60-80%. «Il Disturbo bipolare interferisce con la vita – riprende Mencacci -. Spesso l’insorgenza è precoce, anche in adolescenza. Se non curato, l’alternarsi di fasi depressive e maniacali produce una continua interruzione nel percorso vitale, impedendo il raggiungimento di obiettivi formativi, lavorativi e relazionali. Si interrompono studi, carriere e relazioni affettive. L’individuo alterna periodi di euforia e iperprogettualità a fasi di solitudine e disperazione. Se la prima condizione mette a dura prova il sistema di affetti e relazioni per i comportamenti disinibiti, rischiosi o aggressivi, la seconda presenta spesso sentimenti di colpa, rovina ed elevato rischio suicidario. Tra tutte le patologie psichiche è quella che si associa alla probabilità più elevata di suicidio. Il sonno diventa un elemento guida nella cura. Ridotto marcatamente nelle fasi che precedono l’euforia con una sensazione soggettiva di benessere, è alterato e insoddisfacente nelle fasi depressive».
Il trattamento del disturbo bipolare, specie delle fasi maniacali, è reso difficile dalla scarsa collaborazione di chi ne soffre e dal rischio di mancata aderenza alle prescrizioni. Si basa sull’impiego di farmaci, ma anche di alcune forme di psicoterapia, come quella psicoeducazionale, soprattutto nella fase di mantenimento, quando si cerca di evitare una ricaduta. «I farmaci puntano alla stabilizzazione dell’umore e al miglioramento del ciclo del sonno, mentre gli interventi sugli stili di vita e di tipo educativo mirano a permettere a paziente e familiari il riconoscimento precoce dei segnali di una prossima ricaduta maniacale o depressiva – conclude Mencacci -. L’obiettivo è stabilizzare il tono dell’umore, fondamentale per la ripresa di un’esistenza progettuale. Il trattamento d’elezione è ancora basato sui sali di litio, anche se da alcuni anni sono disponibili antipsicotici di seconda generazione, più efficaci del litio in certe forme. Alcune di queste molecole hanno sicurezza e tollerabilità superiore. Quando è presente il rischio di suicidio, il litio resta però l’unica molecola di dimostrata efficacia».
Utilizzato già dalla metà del XIX secolo come sonnifero e anticonvulsivante e per gli stati di nervosismo generale, dal 1871 il litio, grazie a William Hammond, professore di Diseases of the Mind and Nervous System al Bellevue Hospital Medical College di New York, iniziò a essere impiegato per il trattamento degli stati maniacali. Più o meno nello stesso periodo lo psichiatra danese Frederik Lange provò a usarlo per la profilassi della depressione, ma poi nella prima metà del XX secolo il litio fu dimenticato. L’uso recente per il trattamento della mania risale al 1949, dunque sono ormai quasi settant’anni che è sulla breccia. La sua approvazione da parte della Food and Drug Administration (FDA) americana è del 1970, e da allora è stato prescritto a migliaia e migliaia di persone affette da disturbo bipolare. Tuttavia negli ultimi anni sono diventati disponibili altri trattamenti farmacologici, come il valproato e la carbamazepina.
Da: Corriere.it