Se il disturbo è grave, il farmaco è più efficace. Ma a utilizzarli sono soprattutto coloro che soffrono di forme lievi. La remissione dei sintomi con i medicinali c’è nel 40% dei casi.
C’è una stretta relazione che lega l’efficacia dei farmaci antidepressivi alla gravità del disturbo: tanto più la depressione è grave e tanto più il farmaco risulta efficace. Al contrario, nei casi di depressione lieve la loro efficacia si equivale a quella di una psicoterapia. Eppure i dati italiani sul consumo di antidepressivi mostrano una totale discrepanza rispetto a questa evidenza clinica: soltanto una persona su tre che realmente necessita di una terapia ne fa uso, mentre si moltiplicano le prescrizioni in chi soffre di stati di depressione di lieve entità o nei semplici stati di tristezza, che niente hanno a che vedere con la depressione clinica. A sottolineare questo aspetto è Claudio Mencacci, Presidente della Società Italiana di Psichiatria (SIP).
Remissione dei sintomi in 4 casi su 10
«L’uso di antidepressivi si rende necessario quando è riconosciuta una forma di depressione di gravità moderata o grave» sottolinea Mencacci. «In questi pazienti il farmaco può portare alla totale remissione dei sintomi nel 40-45% dei casi e al dimezzamento dei sintomi in oltre il 65% dei casi. Questi stati di depressione – prosegue il professore – devono tuttavia essere diagnosticati. La depressione non è una semplice condizione di tristezza e demoralizzazione. Il soggetto non deve avere un temperamento malinconico ma deve aver sviluppato su quel temperamento uno stato depressivo. E un singolo evento non può causare uno stato di depressione, ma è l’interazione di quell’evento con una vulnerabilità biologica individuale a scatenarla” sottolinea il professore.
Trattamenti sempre più personalizzati
Un altro grande capitolo riguarda la scelta del farmaco specifico una volta diagnosticato lo stato depressivo. Per la scelta della terapia in psichiatria si sta infatti facendo strada un certo orientamento alla personalizzazione dei trattamenti. «Dal momento che c’è bisogno di un farmaco, si esegue una raccolta anamnestica familiare e individuale, verificando se il soggetto o i suoi familiari abbiano mai fatto uso di antidepressivi e qual è stata la loro efficacia», spiega Mencacci. «Si esegue poi una valutazione dei sintomi del paziente, verificando se prevalgono i sintomi di insonnia e agitazione oppure di apatia e rallentamento del pensiero. Si valuta poi la presenza di eventuali patologie metaboliche e cardiovascolari, nonché le eventuali interazioni farmacologiche con altri medicinali assunti dal paziente», afferma il professore. E in un futuro molto prossimo, l’identificazione del miglior trattamento potrebbe avvalersi di strumenti ancor più innovativi, come i dati genetici del paziente, i biomarcatori predittori della risposta ai farmaci e il neuroimaging per il monitoraggio dell’evoluzione della patologia. In ogni caso, è sempre il medico che, una volta ottenuto il quadro completo del paziente, sceglie la terapia più indicata, tenendo anche in considerazione il peso corporeo del paziente, poiché alcuni farmaci antidepressivi possono realmente favorire l’aumento di peso.
Peso e sessualità gli effetti collaterali più temuti
Rispetto ai caratteristici disturbi – come mal di testa, nausea e inappetenza – che tendono a manifestarsi nella primissima fase di cura, l’aumento di peso e i disturbi della sessualità sono tra gli effetti indesiderati che possono presentarsi nel tempo e che spesso portano i pazienti a interrompere la terapia di propria iniziativa. «Oggi abbiamo a disposizione molecole che hanno un minor impatto sul peso corporeo e sulla sfera sessuale. Per questo raccomandiamo sempre di consultare il medico prima di prendere qualsiasi decisione», raccomanda Mencacci. Un discorso analogo riguarda l’assunzione degli antidepressivi durante il periodo della gravidanza, che spesso è visto come un potenziale pericolo per il futuro nascituro. «Nelle donne che hanno forme di depressione uni o bipolare è assolutamente consigliabile il proseguimento della terapia rispetto alla sua interruzione. Una depressione non curata in gravidanza può infatti peggiorare il quadro clinico della madre e del feto ancor più che se trattata» conclude Mencacci.
Da La Stampa