Per lo psichiatra Claudio Mencacci chi pratica questo sport estremo vuole sperimentare una nuova visione del mondo, con il supporto della tecnologia. Ma il rischio è altissimo.
Uli Emanuele è morto schiantandosi contro una roccia durante un salto a Lauterbrunnen, in Svizzera. Aveva 30 anni ed era un famoso base jumper. Quali motivazioni, quali desideri possono spingere un giovane a praticare uno sport così pericoloso? Il base jumping non è regolamentato né riconosciuto da alcuna legislazione (esiste solo un codice di autoregolamentazione che si sono dati gli stessi atleti) e consiste nel lanciarsi nel vuoto con una tuta alare da rilievi naturali, edifici o ponti, e atterrare lentamente grazie a un paracadute (ma senza paracadute di riserva). Il rischio, come è evidente, è altissimo e i base jumper consigliano di avere una buona esperienza di paracadutismo sportivo (almeno 250-300 lanci) prima di provare. Secondo il sito Blincmagazine.com, i morti dal 1981 a oggi sono stati circa trecento, 27 nel 2016. «Questo sport è per persone che hanno testa sulle spalle, solo così diminuisce il rischio. Non è uno sport per pazzerelli» diceva Uli Emanuele. È davvero così?
Per Claudio Mencacci, direttore del Dipartimento di Neuroscienze – Salute Mentale ASST Fatebenefratelli-Sacco di Milano e presidente della Società Italiana di Psichiatria, i base jumper sono una versione moderna degli antichi esploratori. «Persone che sperimentano nuovi spazi e nuove realtà, tentando di forzare la gravità e renderla meno pesante. Hanno tratti comportamentali peculiari che li portano a vivere sensazioni molto forti. Cercano dei modi per mettersi alla prova e forzare i limiti umani. Questa spinta ad andare oltre la viviamo tutti durante l’adolescenza, per una particolare conformazione del cervello che riduce la consapevolezza del pericolo, mentre in questi sportivi estremi – che sono una parte piccolissima dell’umanità – questa capacità rimane intatta e viene anzi amplificata».
Il sogno di volare è senza tempo e accompagna da sempre l’umanità. «I base jumper sperimentano la caduta, vogliono controllarla – prosegue Mencacci -. E facendo ciò possono osservare il mondo da una posizione totalmente nuova. È un sogno e come tutti i sogni a volte si infrange contro la realtà: di certo chi pratica questo sport è molto esposto al rischio». In alcuni lanci si raggiungono i 200 chilometri orari. Follia o rischio calcolato? «Sono persone che ottengono molta gratificazione da quello che fanno perché usano solo le proprie doti fisiche e così sperimentano e superano i limiti, con l’aiuto della tecnologia. Tra l’altro l’aspetto dell’innovazione è importante, perché attraverso questi tentativi e purtroppo anche fallimenti, miglioreranno sempre più gli strumenti a disposizione di questi moderni “esploratori”, che vogliono aprire nuove strade, percorrendole per primi in modo che altri possano poi batterle. Si spera con maggiore sicurezza».
Da Corriere.it