Il massacro di domenica a Orlando (la peggiore sparatoria di massa nella storia americana) ha lasciato dietro di sé una scia di sangue che comprende le 49 vittime e i 53 feriti, ma anche una serie di pesanti conseguenze psicologiche che da ora in poi dovranno affrontare i sopravvissuti. In quella notte terribile si sono trovati a fuggire, nascondersi, hanno usato i cellulari per implorare aiuto, hanno dovuto vedere amici morire e pensare che sarebbe toccato a loro.
L’angoscia dei sopravvissuti
I sopravvissuti alla strage sono alle prese in questi primi giorni con il Disturbo Acuto da Stress (o ASD, Acute Stress Disorder), che si vive nell’immediato e che comporta ricordi ricorrenti, reazioni emotive di grande sofferenza psichica e fisica, panico, paura… Proprio da subito alcune tra le vittime possono iniziare a manifestare quella che dopo potrebbe diventare una Sindrome del Sopravvissuto: «Il senso di colpa che comporta sentirsi fortunato per essere ancora vivo è pesante», ha confessato Patience Carter, ferita alle gambe a Orlando, la cui testimonianza è stata raccolta dal New York Time. Patience ad esempio ha perso al Pulse la sua amica Akyra Murray e in queste ore si sta chiedendo “perché lei sì e io no”.
Sentirsi in colpa per la «buona sorte»
«Questa è la tipica domanda (senza risposta) che si pone una persona che soffre della Sindrome del Sopravvissuto», spiega il professor Claudio Mencacci, direttore del Dipartimento di salute mentale e Neuroscienze all’ospedale Fatebenefratelli di Milano. «Si tratta in pratica di un filone del noto Disturbo Post-Traumatico da Stress (DPTS) (o Post-Traumatic Stress Disorder, PTSD) che colpisce circa un 25% delle persone vittime di eventi tragici dopo di essi (dai 3 mesi in avanti) – dice Mencacci – : la persona che ne soffre sostanzialmente si sente in colpa per la sua “buona sorte”, per il fatto di vivere una situazione di privilegio a spese di altri o nel confronto con altri, per la percezione di non aver fatto abbastanza per prevenire la catastrofe e le sue conseguenze». Ovviamente si tratta di sensazioni che non sono aderenti alla realtà e le vittime della sindrome ne sono pur consapevoli, ma sono ugualmente “paralizzate” da questo nodo interiore. È un disturbo che può durare anni: «Ci vuole un intervento di lunga durata psicoterapeutico di tipo cognitivo che rompa la lacerazione personale e porti il paziente alla self compassion (la compassione verso se stesso): una condizione emotiva positiva che ribalti il giudizio troppo critico verso di sé».
L’esperienza degli ex deportati
La Sindrome del Sopravvissuto può manifestarsi anche in chi viene colpito da malattie, alluvioni, terremoti, le persone coinvolte in incidenti stradali e ovviamente riguarda i protagonisti di tutte le stragi, gli attacchi terroristici e in primis le guerre. In particolare lo studio delle sindromi post-traumatiche risale alla guerra civile americana (1861 – 1865) quando numerosi soldati vennero sottoposti ad accertamenti per il disturbo che venne definito “Soldier’s heart” (il cuore del soldato). «Comunque la Sindrome del Sopravvissuto è stata riconosciuta dopo la Seconda Guerra Mondiale – precisa il dottor Mencacci – quando sono stati costituiti gruppi di lavoro su questo disturbo. In seguito, quello che ha fatto tanto da un punto di vista culturale e letterario sono state le esperienze dei sopravvissuti ai lager nazisti e alla Shoah. Primo Levi ad esempio scrisse “I sommersi e i salvati”, dove parla del tormento morale e del senso di colpa dei “salvati”».
In particolare studi scientifici su questa Sindrome e gli ex deportati furono avviati agli inizi degli anni ‘60 da due ex prigionieri e pubblicati dalla Cracovia Medical Association nella rivista Medical Review – Auschwitz che raccolse negli anni i dati relativi a questo disturbo.
Le Torri Gemelle
La Sindrome del Sopravvissuto colpisce, come detto, moltissime vittime di eventi tragici recenti e viene approfondita in chiave moderna proprio in occasione della guerra del Vietnam o della guerra del Golfo. Nel 2011 Gina Lippis, una dei quattro italiani sopravvissuti all’attentato alle Torri Gemelle raccontava, nell’anniversario dell’attentato: «Mi trovavo al 46º piano. Quando scesi rimasi quasi paralizzata alla vista di quanto succedeva. Per fortuna qualcuno urlò il mio nome e mi portò via. Nei mesi successivi ho sofferto di sensi di colpa per essermi salvata. Perché io, che non sono nemmeno sposata, e non tante madri di famiglia, che invece hanno perso la vita? Da quel giorno non ho più provato cosa vuol dire essere veramente felice».
I ragazzi del Bataclan
Per tornare infine ad episodi più recenti e simili alla tragedia di Orlando, la strage del Bataclan a Parigi: la psicologa Florence Bataille ha incontrato coloro che sono scampati alla mattanza: «Mi raccontano i rumori dei kalashnikov, il lago di sangue che hanno attraversato, l’incapacità di prendere una decisione. Poi c’è il senso di colpa – dice – ed è proprio quello che impedisce a molti ragazzi di dormire la notte: mentre stava scappando un ragazzo ha incrociato lo sguardo di un coetaneo ferito che chiedeva aiuto. Lui non si è fermato ad aiutarlo perché aveva paura di essere ucciso. Adesso non dorme perché pensa a quello che avrebbe potuto fare per salvarlo». La storia tristemente, si ripete.
Da BCRmagazine