Il mal d’amore? È come l’astinenza. Perché soffriamo quando ci lasciamo.
«Il sentimento per l’amato è come una droga». Dove nasce il dolore della separazione
L’amore è come il cioccolato: crea dipendenza. Banale? Forse. Ma una somiglianza tra la barretta di cacao e il cuore c’è: tutto bene finché ne puoi mangiare a volontà; cominciano i guai se smetti da un giorno all’altro; sono dolori quando sei costretto a farlo e non lo scegli. L’antropologa statunitense Helen Fisher lo ha spiegato con più grazia in una conferenza Ted: «L’amore romantico è una delle sostanze che crea maggiore dipendenza sulla Terra. È perfetta quando va tutto bene, orrenda se va male. Le sue caratteristiche sono tolleranza, astinenza e infine ricaduta».
Normalmente ci rendiamo conto di quanto siano vere queste parole alla voce «ricaduta». Basta un pezzetto di cioccolato — nella fattispecie incrociare per caso l’ex amore della vita anche solo di sfuggita o per uno di quegli inutili chiarimenti definitivi (e mai definitivi) — per desiderare di farne fuori dieci confezioni all’istante. Helen Fisher arriva a dire, ma è una provocazione, che «l’amore romantico fa molto di più di una dose di cocaina: se non altro, l’effetto della cocaina passa; l’amore romantico diventa un’ossessione». Il che lascia poche speranze.
I neurotrasmettitori della «felicità»
Sul Guardian, però, il neuroscienziato Dean Burnett ha dato un senso ai pomeriggi buttati via a ciondolare tra il divano e il letto, con il telefono acceso, ma silenziato, e le tapparelle abbassate, svolgendo come unica attività di concetto quella di soffiarsi il naso. Lui scrive, citando lo studio sulle Basi neurologiche dell’amore romantico di Andreas Bartels e Semir Zeki, che quando siamo innamorati aumenta la produzione della dopamina e dell’ossitocina, che sono i neurotrasmettitori della felicità. Si innesca, cioè, un meccanismo di ricompensa che associa queste due molecole alla vista del partner. In assenza del partner, dobbiamo fare a meno anche della ricompensa.
È il cervello, bellezza, e tu non ci puoi far niente. Non a caso Burnett ha intitolato il libro in cui se ne occupaThe Idiot Brain. «Però una cosa bisogna sottolinearla», spiega il suo collega Alessandro Perin, neurochirurgo dell’Istituto Carlo Besta di Milano. «Dobbiamo ricordare chi copia chi. Sono le sostanze tossiche che battono gli stessi circuiti vitali del piacere e non viceversa. Quando siamo innamorati ossitocina, dopamina e serotonina vanno a spegnere la reazione di attacco e di paura dell’amigdala. Se cala la loro produzione, entriamo in astinenza».
Questo spiega l’inquietudine, non soltanto psicologica, ma anche fisica, che segue a una rottura. Non a caso Emily Dickinson scrisse che «la separazione è tutto ciò di cui abbiamo bisogno per conoscere l’inferno» (ed era un secolo e mezzo fa).
Per lo psichiatra Claudio Mencacci si può vincere, a una condizione: «Dovremmo imparare a lasciarci». Il che non è esattamente il primo pensiero quando ci si mette insieme. «È solo imparando a riconoscere le proprie risorse e la capacità di avere una relazione autentica e libera che si supera la dipendenza. Talvolta non si riflette sul fatto che a tenere unite due persone è soprattutto la paura e non dovrebbe essere così».
Raffaele Morelli, dopo decenni di cuori infranti ricomposti nel suo studio milanese, riconosce l’infallibilità di un solo modo, per venirne fuori. «Come per le droghe, bisogna smettere di colpo, immediatamente, rompendo qualunque tipo di collegamento con l’altro, senza più frequentare gli stessi posti o gli stessi amici. È la nostra grande occasione per chiudere e ricominciare. Il dolore, se lo accogliamo senza ragionamenti, come arriva se ne va». Basterà? Per Mencacci «bisogna sapersi ricompensare». Il che va bene se non si sostituisce una dipendenza con un’altra.